Descrivere il Museo Laboratorio della Mente non è impresa semplice. In un’immagine, è un po’ come andare ad un concerto di musica indie: la musica non ti viene certo incontro, non si preoccupa di avvicinare il tuo gusto o la tua approvazione; sembra quasi un muro da abbattere, devi essere tu a cercarla, a volerla, l’unico modo per sentirla davvero tua sarà "incontrarla" dentro di te.
Ne parleremo tra poco.
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Siamo a
Piazza S.Maria della Pietà, zona Nord di Roma. Qui si trova quello che, un
tempo, era l’ex manicomio più grande d’Europa, l’Ospedale Psichiatrico “Santa
Maria della Pietà”. Una sorta di “manicomio-villaggio”:
un’area di centotrenta ettari, immersa nel verde, una struttura composta da quarantuno
edifici. Ventiquattro di questi erano padiglioni di degenza, ognuno una realtà a sé
stante: il XVIII era quello dei criminali, nel XIV stavano gli agitati, nel
XXII i cronici, nel XII tutti i pericolosi per tentativi di fuga e di suicidio, e cosi via. Il più grande era il XXII,
il” Bisonte”, qui confluivano gli
epilettici, i dementi senili e gli schizofrenici. In totale il Manicomio ospitava piu di mille
pazienti.
L’Ospedale
Psichiatrico ha chiuso i battenti nel 1999: ben vent’anni dopo la “Legge
Basaglia”, l’ormai storica legge 180 che, nel 1978, bandì di fatto la pratica
manicomiale dall’assistenza psichiatrica in Italia.
Oggi parte della sua
storia è raccolta al padiglione VI . Qui dal 2000 ha sede il Museo Laboratorio
della Mente. Se pensate
al classico Museo siete fuori strada. Se (come me) alle mostre indugiate sulle
didascalie, vi fornite di mappa audio, vi accodate alla prima guida incontrata,
rimarrete (come me) sulle prime spaesati. L’entrata è minimale (un paio di
cartelli e un citofono a cui suonare, potresti credere sia chiuso). Giunti
dentro, vi verranno segnalate le tappe del percorso con le informazioni
fondamentali, e nient’altro. Si tratta di una scelta voluta. Perche’ il Museo
della mente non vuole raccontare una storia, vuole farla (ri)vivere. E per
riviverla non serve la narrazione, ma le tue emozioni, la tua partecipazione
alla trama, dovrai letteralmente farne parte. Un Laboratorio più che un museo,
un luogo dove puoi sentire e vedere, ma dove solo con l’immedesimazione potrai ascoltare
ed osservare. Un luogo non per rassicurarti, ma per farti partecipare. L’empatia lo strumento privilegiato, la chiave per un dialogo
autentico tra chi stava (e sta) da un lato del muro e chi dall’altro. Un muro
che ieri era fisico (il Manicomio) ma che oggi rimane alto e forte tra noi: lo
Stigma, quella barriera “di sicurezza” che divide chi sta “fuori” ( la “società
civile”) da chi sta “dentro” (il “malato mentale”). Il Museo della Mente vuole
rimescolare le carte, creare il contatto tra i due mondi. Ricordarci che non
sono due mondi alieni, ma in realtà alquanto vicini, perchè “visto da vicino
nessuno è normale”. Descrivere il Museo a parole non è semplice , ma ci proveremo:
con le parole, e con gli scatti di Virginia, la mia “compagna di viaggio”, il cui
racconto fotografico è sempre uno splendido valore aggiunto.
Il percorso
presenta una duplice veste. La prima parte è dedicata ai “Modi del sentire”:
una successione di ambienti dove calarsi con le proprie percezioni, e riflettere
su di esse. Ad esempio la camera di Ames: essa dimostra come il nostro sistema percettivo
possa produrre distorsioni, quando nell’ambiente circostante alcuni fattori
alterino i nostri schemi visivi di riferimento. Dentro una stanza si
posizionano due soggetti, e un terzo le osserva da un foro esterno: la stanza ha
una forma molto diversa rispetto a quelle abituali, ma il nostro occhio non se
ne accorge. D’altra parte, esso percepisce un’immagine deformata dei due
soggetti: la nostra mente, in qualche modo, sceglie di vedere uomini con
altezze bizzarre, piuttosto che un ambiente diverso da quello a cui è abituata.
Ma se necessitiamo così tanto dei nostri punti di riferimento, ciò inconsciamente
può portarci ad allontanare quel che non riconosciamo come familiare. Lo stigma, sopra ogni altra cosa, è paura
della diversità: o forse, è la paura di trovare in noi quella diversità.
Tenerla a distanza, allora, ci sembra la soluzione più semplice e immediata.
Le
esperienze sensoriali proseguono. Entri
in una nuova sala, e trovi una bocca bloccata nell’atto di comunicare. Di
fronte a te un microfono, parlando le labbra si attivano, ma non esprimono le
tue parole, bensì labiali incomprensibili. Il microfono ha dato vita alle
labbra, ma gli ha dato davvero anche
“voce”? Una persona senza ascolto è una persona fuori dal mondo,
l’incomunicabilità una della barriere più insopportabili da sperimentare,
perdere il significato della tua voce finisce, in ultimo, per soffocare anche
il fiato con cui la emetti.
Ad un certo
punto il Museo chiede anche a te di “diventare folle”, per qualche minuto.
Finora eri osservatore interattivo, ma ora devi davvero entrare nella parte. La
sala propone un tavolo e due pulsanti. Mimando la classica posizione del
soggetto uditore di “voci” (con gomiti sui pulsanti e mani a coprire le
orecchie) percepirai una voce, come se essa provenisse da dentro di te. Poco
più in là sta uno schermo, su di esso scorrono delle fotografie. Sono “foto
parlanti”, per ascoltarle devi riprodurre il tipico dondolio ossessivo di molti
pazienti: in questo modo uno di loro apparirà sullo schermo, e ti racconterà
delle “voci” che hanno accompagnato la sua vita.
La seconda
parte del percorso è dedicata alle memorie. La farmacia, la camera di
contenzione fisica, gli strumenti di elettroshock, la “fagotteria” (luogo in
cui i ricoverati lasciavano abiti ed averi), i libri e i documenti assolvono ai
buoni “doveri”espositivi.
Ma quello che davvero il Museo della Mente vuole
mostrare sono le esistenze.
O meglio, le esistenze negate, di chi i manicomi li
ha vissuti per anni. Siamo nella sala “Inventori di mondi”. Qui, tra le altre,
è esposto il muro di Oreste Fernando Nannetti: paziente dell’Ospedale
Psichiatrico di Volterra, incide un’ intera parete con la sola fibbia della sua
divisa. Graffiti che a uno sguardo esterno sono indecifrabili. L’immagine è
quella del “silenzio assordante”, dell’urlo castrato in gola, della disperata
ricerca di comunicare la propria presenza: certo lacerata dalla malattia,
soffocata da luoghi che più che curare miravano a custodire (gli altri, chi
stava fuori), ma non ancora spenta del tutto. I graffiti sono lì sul muro, in
tutta la loro cripticità. E pongono il dilemma, la scelta nuda e cruda, senza
compromessi. La scelta, da sempre, è da che parte del muro stare, da che angolo
leggere i graffiti, i segnali che ci manda “il folle”: se dal lato
dell’isolamento, del glaciale distacco da chi usa un canale comunicativo per
noi oscuro. O se dal più caldo lato della comprensione, quella di chi prova non
solo a spiegare (a se’stesso) ma anche ad interpretare (l’altro), di chi ricorda che per ogni esistenza ci
possono essere infiniti mondi. Di chi dietro ogni modo di essere intravede un
senso, degno di essere ascoltato, anche (e soprattutto) quando i colpi
dell’esistenza (o della malattia, come si vuole) l’hanno a tal punto frammentato
da renderlo, in apparenza, ormai svanito.
Scrive Franco Basaglia nelle
Conferenze Brasiliane (1979) “Giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo
passo, disperatamente trovammo la maniera di portare chi stava dentro, fuori e chi
stava fuori dentro”. L’ultima
parte del Museo si sofferma sulle tappe di quell’intrepido percorso che, negli
anni 60-70, trasformo’ l’assistenza psichiatrica in Italia. Una marcia
incessante, quasi estenuante, ostinata, in grado di “portare fuori” migliaia di
persone, superando ostacoli quasi insormontabili con le armi delle idee e del
coraggio . Una vera rivoluzione cui oggi dobbiamo la chiusura dei manicomi.
Quello di
S.Maria della Pietà, il più grande d’Europa, chiuse definitivamente nel 1999.
L’anno dopo sorge il Museo Laboratorio della Mente. Un viaggio a doppio
binario, un’andata e un ritorno. Un dialogo interiore, un’esperienza
conoscitiva, un far “uscire dentro” un’emozione e una riflessione. E’ il
tentativo di stabilire un contatto, di “sfiorare” il malato mentale per mezzo
di una luce non convenzionale ma che, anche solo per un attimo, possa
permettere di intravederlo. E poi il racconto di chi, abbattuto il muro della
reclusione, è “entrato fuori” nel mondo,
un mondo che di fatto lo aveva escluso, ma che doveva riaccoglierlo. Da
entrambe le parti fu un transito per nulla indolore. Ma la fine dei manicomi è,
se c’e n’è una, la vera “pietra miliare” nell’impervio sentiero della lotta
allo Stigma.
Dott. Stefano Naim
Foto: Dott. Virginia Rasi
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