Sulle tracce della Psicosi - Influenza dei fattori di rischio sulla Working Memory


Durante il mese scorso abbiamo dato spazio alle prime ricerche di uno studio sperimentale in corso presso l'Università di Roma "Tor Vergata" e l'Università Cattolica "Nostra Signora del Buon Consiglio" di Tirana, coordinato dal Dott. Giorgio Di Lorenzo - Psichiatra e Ricercatore presso l'U.O.C. di Psichiatria e Psicologia Clinica del Policlinico Univeristario dell'ateneo romano, diretta dal Prof. Alberto Siracusano. Lo studio è curato dai Dottori in Medicina e Chirurgia: Jetmir Nikolli e Stefano Naim, quest'ultimo, anche collaboratore del Blog del Benessere Psicologico. La prima fase della ricerca, ha richiesto il campionamento di una popolazione di giovani adulti in stato di buona salute psicofisica, al fine di ricercare una possibile correlazione tra i fattori di rischio noti per disturbo dello spettro psicotico ed eventuali deficit cognitivi nell'area della working memory.



L'iniziativa di condividere, tramite il nostro spazio web, le prime ricerche su questa tematica, ben si concilia con la mission del blog, inteso come territorio di condivisione e informazione sul benessere psicologico e come strumento per addetti ai lavori e studenti che possono usufruire delle nostre pagine come cassa di risonanza per mettere a conoscenza la comunità sugli studi in itinere e individuare volontari che desidirino partecipare al campione delle ricerche in questione.



E' un altro, nostro piccolo contributo alla ricerca, alla prevenzione e, appunto, al benessere psicologico!


Considerato l'interesse, riscontrato tra i nostri lettori, desideriamo oggi rendere noti alcuni risultati, soffermandoci sul commento ai dati, curato  dal Dott. Naim e precisando che la ricerca completa è in ancora in lavorazione presso gli atenei promotori e verrà eventualmente e successivamente pubblicata, nelle sedi opportune, dai ricercatori responsabili dello studio. Ne approfittiamo inoltre per ricordare, come comunicatoci dai responsabili dello studio, che a breve avrà inizio la seconda parte del lavoro scientifico, con conseguente ampliamento del campione. Rinnoviamo quindi l'invito, per chi volesse prendere parte al campione, a verificare di disporre dei requisiti necessari cliccando sul link sottostante.

Info e contatti per partecipare al campione


Buona lettura 


Santo Cambareri




Le premesse dello studio

La ricerca si inserisce nel solco degli studi sulla EIP (Early Intervetion in Psychosis) 

un approccio integrato e multidisciplinare, che mira a un riconoscimento quanto più possibile precoce del disturbo psicotico, e perciò ad un trattamento che aumenti la probabilità di interromperne il decorso patologico, o almeno di migliorarlo.
Allo stato dell’arte, in assenza della possibilità concreta di disporre a breve termine di nuovi farmaci più efficaci, l’intervento precoce è senza dubbio la strategia più adeguata alla gestione del paziente psicotico. L’EIP si focalizza fondamentalmente su due aspetti

1. Una diagnosi precoce propriamente detta, mirata al riconoscimento del primo franco episodio di psicosi alla minor distanza possibile dal suo esordio clinico. Spesso il primo contatto tra il paziente e lo psichiatra, e da qui l’inizio di un trattamento adeguato, avviene molto tempo dopo l’esordio psicotico, con un ritardo medio di circa 1÷2 anni (e, nei casi estremi, fino a 5 anni). Tale periodo è definito come durata di psicosi non trattata (Duration of Untreated Psychosis, DUP). In questo periodo possono verificarsi fatti di vita significativi (abuso di sostanze, tentativi di suicidio, perdita di opportunità scolastiche o lavorative, disgregazione del nucleo familiare) (Savoja, 2010). La maggior parte dei dati a disposizione conferma che la riduzione del DUP correla con una maggiore risposta al trattamento farmacologico del primo episodio e, quindi, con un migliore outcome (Faaroq et al., 2009; Marshall et al., 2005). Perciò, anche se la malattia è già manifesta, più breve è la durata della sintomatologia, meglio si risponde alla terapia.

2. Una seconda possibile fase di intervento, ancora più precoce,  riguarda il riconoscimento di quella che storicamente è nota come “fase prodromica”, oggi più opportunamente codificata nel DSM V come «stato mentale a rischio»: un periodo, che precede anche di alcuni anni la “crisi psicotica”(con cui classicamente il disturbo si presenta in forma attiva), nel quale è però già presente un certo deterioramento dello psichismo del soggetto, obiettivabile con la presenza di segni e sintomi non caratteristici : depressione, ansia, irritabilità, distraibilità, ritiro sociale, rituali di tipo compulsivo, pensiero magico, ecc. (Yung&McGorry, 1996). In uno degli studi longitudinali più accurati (studio ABC ;Hafner et al., 1999) lo stadio prodromico ha avuto durata media di 5 anni, ed è stato evidenziabile nel 73 % del campione. (Häfner et al., 1999).

Prevenzione primaria e secondaria 

Queste considerazioni rientrano nella più generale distinzione che, in campo medico, esiste tra la prevenzione primaria e secondaria: l’obiettivo della diagnosi precoce di una malattia prende il nome di prevenzione secondaria, mentre l’adozione di interventi volti ad evitare l'insorgenza di una malattia o di un evento sfavorevole corrisponde alla prevenzione primaria. Tuttavia applicare tale distinzione nel campo della psichiatria non è così semplice, in virtù dell’intrinseca complessità della branca (specialità medica “di sintesi“ tra più discipline, scientifiche ed umanistiche) e delle conseguenti scarse conoscenze eziopatogenetiche che essa possiede nei confronti dei disturbi di cui si occupa, e di quelli psicotici in particolare.

Un buon esempio di queste difficolta può essere offerto proprio dal concetto di “stato mentale a rischio“:  la sua introduzione si deve a McGorry , che nel 1996 conia il termine in sostituzione dell’ ormai inadeguata definizione di “stato prodromico”, a sottolineare l’acquisizione, ormai consolidata, che i sintomi prodromici indicassero semplicemente un’aumentata vulnerabilità alla psicosi, piuttosto che la tappa iniziale di un percorso obbligato verso di essa (McGorry et al., 1996). Pertanto tali sintomi “aspecifici, di incerto inquadramento diagnostico, molto spesso sottosoglia o comunque atipici“ (Pancheri, 2007) dapprima considerati l’espressione più precoce di un processo psicotico  già in atto, diventano indicatori di un rischio aumentato di psicosi, ma non necessariamente predittivi di una futura insorgenza del quadro conclamato.

Alla luce di ciò, l’obiettivo nel management della psicosi oggi non è più solo quello di curare tempestivamente il disturbo (prevenzione secondaria) ma anche di operare una vera e propria prevenzione primaria: impattare cioè su una condizione clinica pre-morbosa, “spia” di una forte predisposizione del soggetto alla psicosi (non a caso, infatti, lo stato mentale a rischio è detto anche "Sindrome di Rischio Psicotico"). 

Problemi etici 

Questo nuovo inquadramento non è solo di natura concettuale, ma porta con sè importanti implicazioni sul piano operativo: se da un lato, infatti, riuscire a intervenire su un individuo “a rischio“ potrebbe garantire un outcome migliore rispetto a qualsiasi schema terapeutico posto in essere su una psicosi conclamata, è altrettanto vero che il soggetto target non per forza diventerà un paziente schizofrenico, ma potrebbe nel tempo sviluppare un disturbo attenuato dello spettro psicotico (es. disturbo schizofreniforme), un disagio mentale di tipo non psicotico (es. una qualche forma di nevrosi) o, ancora, potrebbe non sviluppare nessun disturbo.

Nasce, quindi, un fondamentale problema di tipo etico: molti individui potrebbero essere sottoposti a trattamenti dei quali non avrebbero bisogno. Pur se tale strategia nasce a scopo preventivo , e si presuppone dunque di natura “soft“ (principalmente non farmacologica, e volta all’eliminazione dei fattori di rischio modificabili) è innegabile l’impatto che un tale intervento andrebbe ad avere sulla sfera emotiva e relazionale del soggetto, tenendo conto della sua età “critica” (lo stato mentale a rischio sorge quasi invariabilmente in fase adolescenziale) ed alla luce soprattutto del forte “stigma” che , nell’opinione pubblica , il disturbo mentale ancora oggi presenta.
Di conseguenza, chi opera per prevenire la schizofrenia, necessita di una metodologia che permetta di distinguere tra i casi a rischio che evolveranno poi in psicosi, e gli altri, che evolveranno in condizioni meno severe o non evolveranno affatto: l'obiettivo è quello di garantire cure adeguate ai soggetti più vulnerabili senza, al contempo, “psichiatrizzare“ soggetti sani, che “ce l’avrebbero fatta da soli” senza bisogno di alcuna terapia (Yung, 1996).

Il concetto di "Endofenotipo" 
 
In questa cornice, in psichiatria più che in qualunque altra branca medica, assume importanza il concetto di endofenotipo: tale termine viene coniato nel 1966 da Bernard John e Kenneth R. Lewis (John & Lewis, 1966), ma assume centralità nella ricerca neuropsichiatrica a partire dal  2003, con gli studi di Gottesman e Gould (Gottesman& Gould, 2003). Essi erano volti ad aumentare le conoscenze sulla patogenesi della schizofrenia e, più in generale, sulle molteplici interazioni tra fattori genetici ed ambientali che stanno alla base di manifestazioni fenotipiche quali il comportamento umano ed i disturbi psichiatrici. In pratica, accanto ai concetti classici di genotipo e fenotipo si viene ad affiancare un nuovo elemento, basilare per la comprensione dei tratti genetici complessi, il fenotipo intermedio (o, appunto, endofenotipo): un marker biologico, risultato dell’interazione di diversi geni, che conferisce un’aumentata vulnerabilità nei confronti di un dato fenotipo. Si tratta dunque di una nuova dimensione, strettamente derivata dal corredo genetico dell’individuo e pertanto ereditabile, non visibile a occhio nudo ma misurabile, sottostante ad un particolare carattere fenotipico e la cui presenza è associata ad una maggiore espressione dello stesso.

Applicando questo concetto generale (valido per tutti i tratti complessi) ai disturbi psichiatrici, la presenza di un determinato endofenotipo, statisticamente associato ad esempio alla schizofrenia, rende il soggetto più vulnerabile alla sua insorgenza, perché lo avvicina alla “soglia biologica“ alla quale il disturbo si renderà manifesto: sarà quindi sufficiente una minor quota di esposizione ai fattori psico-sociali per slatentizzare il quadro clinico (Siracusano et al., 2014).

La schizofrenia ha un’origine in buona parte genetica, e una psicopatologia quanto mai ampia e variabile: individuare gli endofenotipi della schizofrenia, questa sorta di “ponte biologico“ tra genetica e ambiente, permette di ridurre quel gap di conoscenze esistente tra la suscettibilità ad essa e le sue manifestazioni cliniche.

E’ sullo sfondo di questa innovativa area di ricerca che nasce il nostro studio.

Ad oggi le misurazioni proposte come endofenotipi della schizofrenia sono molto numerose, ma fondamentale diventa isolare quel/i marker dotati della maggiore predittività, riproducibilità, misurabilità, e dunque di quelle caratteristiche che li possano rendere utilizzabili nella pratica clinica. La natura di un endofenotipo non è univoca, bensì varia a seconda dell’approccio di studio utilizzato: può essere un marker biochimico, neuroendocrino, neurofisiologico, neurocognitivo  (Siracusano et al., 2014). 

La Working Memory come marker biologico 
 
La maggioranza degli studi disponibili concorda con l’osservazione (già compiuta da Kraepelin, uno dei “ padri “ della schizofrenia) secondo cui i pazienti schizofrenici mostrano un calo piuttosto brusco della performance cognitiva al momento dell’esordio clinico, deficit che si accentua, pur in modo variabile, nei primi anni del decorso. In un quadro di compromissione cognitiva diffusa, si stagliano con particolare risalto anormalità dell’attenzione, della memoria, delle funzioni esecutive, delle capacità di mentalizzazione. Sulla base di test validati per la valutazione di queste aree, numerosi studi hanno messo in luce che i pazienti schizofrenici (siano essi cronici o all’esordio), come anche i loro familiari di primo grado presentano performance ridotte rispetto ai soggetti di controllo, supportando l’ipotesi che tali deficit possano essere validi endofenotipi dello spettro schizofrenico.

Il nostro studio si inserisce nel solco di quest’attiva area di ricerca. Allo stato dell’arte la working memory si mostra uno dei più promettenti marker biologici, in grado di “accorciare il gap” tra il genotipo di malattia e la sua manifestazione clinica.


Obiettivi dello studio

Su questi presupposti di base siamo andati alla ricerca di correlazioni  tra i fattori di rischio noti per psicosi ed il funzionamento neurocognitivo, focalizzando in particolare la nostra attenzione sul dominio della working memory visuo-spaziale.  Scopo dello studio era ricercare un‘eventuale correlazione tra le suddette variabili: ovvero valutare se e come specifici deficit cognitivi (le cui alterazioni nel soggetto con diatesi schizofrenica sono documentate) si associno nel soggetto sano portatore di fattori di rischio noti per psicosi.

Il fine ultimo di questo campo di ricerca è acquisire validi strumenti per l’individuazione e la gestione dei soggetti nelle primissime fasi di malattia,  meglio ancora se in fase pre-morbosa.

Sulla base di questi presupposti, siamo andati ad esplorare le suddette correlazioni all’interno della popolazione sana, selezionando allo scopo un campione di giovani adulti: è stato scelto questo  target di età in quanto nella gran parte dei casi la psicosi si manifesta entro le prime tre decadi di vita,  e pertanto soggetti dai 18 ai 30 anni erano quelli più idonei per dare validità alle nostre indagini. 

Materiali e metodi 
 
Abbiamo sottoposto il nostro campione ad una batteria di test neurocognitivi, e successivamente ad una serie di scale/questionari per la ricerca dei fattori di rischio. 

Abbiamo successivamente incrociato le performance cognitive dei soggetti con il loro tasso di esposizione ai fattori di rischio, allo scopo di osservare come questi dati si correlassero: l’ ipotesi di partenza era l'esistenza di una correlazione inversamente proporzionale tra le due variabili, dimodochè all’aumentare dei fattori di rischio diminuiscano le prestazioni cognitive del soggetto. memory. 

Ci siamo concentrati in particolare su 3 parametri principali: le prestazioni di working memory visuo-spaziale, il consumo di cannabis e gli indici di schizotipia. 


Strumenti


Change Localization Task (CLT): è un test disegnato dal Maryland Psychiatric Research Institute ed è stato il primo dei test ad essere somministrato nel corso del presente studio. I soggetti interpellati, posti di fronte allo schermo di un computer, vedevano comparire su uno sfondo nero quattro piccoli quadrati, ognuno di diverso colore; lo stimolo durava un decimo di secondo, dopodichè tali quadratini scomparivano; quindi dopo 900 msec essi riapparivano nella medesima posizione, ma solo tre dei quadratini mantenevano lo stesso colore. I soggetti dovevano riuscire ad individuare quale avesse cambiato colore, selezionandolo col mouse.                                                            
Questo test è stato concepito per indagare la working memory visuo-spaziale. Ridotte prestazioni della working memory sono un tratto comune in individui con schizofrenia e in quelli con alto rischio di psicosi, ed anche un target promettente per le strategie di un intervento precoce (Ziermans, 2013): difatti alterazioni “soft “della WM possono essere riscontrabili nei parenti di I grado dei pazienti schizofrenici, ed ancor di più nei soggetti con “stato mentale a rischio“, in concomitanza dunque di sintomi ancora assenti o del tutto aspecifici. In uno studio del 2013 (Johnson et al. 2013), attraverso questa modalità d’indagine, sono state analizzate le relazioni tra Working Memory ed abilità cognitive in un gruppo di pazienti schizofrenici e in un gruppo di controllo: sono emerse delle differenze altamente significative tra i due gruppi.


Intervista sul consumo di Cannabis: è stata indagata l’esposizione alla cannabis del campione. Per prima cosa ne è stato ricercato l’uso in vita, quello attuale e l’età del primo consumo. Si è inoltre chiesto al soggetto di spiegare le motivazioni che lo spingono alla cannabis,  e di indicare quali esperienze essa inducesse durante il suo utilizzo, e la valenza positiva, negativa o neutra di ognuna.       
 
Schizotypal Personality Questionnaire (SPQ test): si tratta di un questionario di autovalutazione composto complessivamente da 74 items, ad ognuno dei quali il soggetto deve rispondere con un SI o con un NO (Raine, 1991). I vari items sono a loro volta articolati in subscale, che esplorano i nove criteri diagnostici previsti per il Disturbo Schizotipico di Personalità (DSM-5).
1-      Non corretta interpretazione degli eventi.

2-      Credenze strane o pensiero magico.

3-      Insolite esperienze percettive.

4-      Bizzarrie di pensiero e di parola.

5-      Pensiero sospettoso o paranoico.

6-      Scarsa espressività emotiva.

7-      Comportamento eccentrico.

8-      Mancanza di amici intimi.

9-      Ansia sociale.
Le caratteristiche psicometriche del test si sono dimostrate di buon livello, ed oggi  l’SPQ risulta strumento utile sia per lo screening della personalità schizotipica nella popolazione generale, sia nella ricerca di tratti schizotipici presenti singolarmente, con una buona applicabilità anche per gli studi familiari e genetici sui pazienti schizofrenici. 





Risultati
Nello studio multicentrico sono state arruolate 250 persone (126 donne e 124 uomini; età media rispettivamente 25.9 e 25 anni). 

Le possibili relazioni tra i fattori di rischio per psicosi e la funzione cognitiva sono state indagate per mezzo di numerose analisi esplorative, condotte utilizzando soprattutto il coefficiente di correlazione di Spearman: tale coefficiente serve per misurare la correlazione tra due variabili di tipo ordinale.

Sulla base del consumo di cannabis riferito, il campione è stato suddiviso in consumatori attuali (14) e non consumatori attuali (102);   sono stati quindi valutati i punteggi ottenuti dai due gruppi al CLT e all’SPQ. L’analisi dei risultati non ha riscontrato differenze significative: sia le performance cognitive che gli score di schizotipia sono stati sostanzialmente sovrapponibili nei due gruppi.

Successivamente abbiamo correlato l’indice di schizotipia con il CLT nell’intero campione: cioè si è valutato se la variazione dello score SPQ incidesse o meno sulla performance di working memory.  In particolare è stato considerato il tempo medio impiegato dai soggetti per svolgere i compiti CLT, indagando sia quello occorso per dare risposte corrette, che quello per le risposte poi risultate incorrette. All’aumentare dello score SPQ non si è apprezzata una variazione significativa nello svolgimento del compito visuo-spaziale.

Dati molto significativi sono stati invece ottenuti correlando il CLT con due fattori di rischio contemporaneamente: abbiamo infatti aggiunto all’indice di schizotipia la variabile cannabis, valutando separatamente gli utilizzatori attuali (14) da quelli che non lo sono (102). Il primo sottogruppo (current users) ha mostrato rispetto al restante campione un aumento del tempo di latenza al CLT, pur in presenza di un tasso di risposte corrette sovrapponibile.
L’indagine sulla cannabis è stata inoltre approfondita, alla ricerca di eventuali suoi effetti a lungo termine sulla working memory. Il campione dei non utilizzatori attuali è stato pertanto scomposto nei no users (coloro che mai ne hanno fatto uso) e nei past users (coloro che non ne fanno più uso da alcuni anni). Questi ultimi hanno mostrato una performance sovrapponibile a quella dei no users: ciò suggerisce un effetto di deterioramento cognitivo svolto dal consumo di cannabis a breve-medio termine, ma non a lungo termine.
Sulla base dell’effetto della cannabis suggerito dai dati, è stata ulteriormente valutata la sua frequenza di consumo, ed il potenziale ruolo svolto sulla performance cognitiva. Analizzando l’andamento delle risposte al CLT dei current users, emerge che all’aumentare della frequenza di consumo aumenta il tempo di latenza, indice di un significativo scadimento delle performance di working memory. 

I risultati descritti sono ancora preliminari, ma già essi sufficienti a confermare l’ipotesi di partenza che la working memory nella popolazione generale possa essere influenzata dai fattori di rischio noti per psicosi. Se associando un solo fattore di rischio le performance di WM sono risultate nella norma, tuttavia combinando due diversi fattori di rischio si è registrato un deficit significativo. In particolare, si è registrato che la concomitanza dell’uso di cannabis e di tratti schizotipici sembra influenzare la memoria di lavoro determinando un’aumentata latenza di risposta  al test CLT.

I risultati da noi ottenuti confermano la grande utilità che potrebbe avere  indagare nella popolazione generale, e soprattutto negli adolescenti e giovani adulti, l’esposizione ai fattori di rischio per  psicosi e il rendimento cognitivo. Ciò andrebbe nella direzione di migliorare la definizione eziopatologica della Schizofrenia, ma soprattutto  favorirebbe l’identificazione precoce dei soggetti ad alto rischio psicotico, i quali potrebbero giovarsi, come recentemente dimostrato da McFarlane e collaboratori (McFarlane et al., 2015), di trattamenti precoci in grado di  migliorare sensibilmente l’outcome globale.

Conclusioni 

I fattori di rischio per la psicosi sono molti e diversi. In rapporto alla possibilità o meno di intervenire su di essi, si possono dividere in due categorie principali: fattori di rischio modificabili e fattori di rischio non modificabili. Questi ultimi, come ad esempio la predisposizione genetica o l’età dei genitori al momento della nascita, non possono in alcun modo essere modificati. Ma la lista dei fattori modificabili, come l’abuso di alcol, l’uso di cannabis, l'"early trauma" (trauma precoce), è ampia e ciò apre importanti scenari per la messa a punto di strategie di prevenzione primaria. In particolare, per quanto attiene al  fattore traumatico, anche se l’evento è immodificabile, si può intervenire con la psicoterapia per ridurre l’impatto psicologico negativo che questo esercita sulla maturazione psichica del soggetto.

Strategie di prevenzione del trauma possono inoltre essere approntate tramite adeguati strumenti di legge che riescano a proteggere i bambini dal fenomeno della violenza, sia essa fisica che mentale. Ricerche degli ultimi tempi parlano ad esempio del  trauma infantile da “cyber bullying”, e di come esso possa rivelarsi della stessa intensità e quindi sovrapponibile al trauma fisico (Cross & Lester, 2015).
Quindi interventi di prevenzione di queste forme di violenza sono necessari ed auspicabili, ricordando che il primo e più importante compito della medicina è la tutela della salute, e dunque la prevenzione della malattia, piuttosto che la sua cura. 
Oggi un soggetto a rischio di psicosi viene riconosciuto come tale quasi sempre retrospettivamente, ovvero quando diventa francamente psicotico. Le opzioni terapeutiche attualmente disponibili spesso permettono un miglioramento della sintomatologia, ma non sono quasi mai in grado di garantire una remissione completa, e quindi la guarigione del soggetto. Tra l’altro nella pratica clinica si osserva una scarsa compliance del paziente schizofrenico nei confronti della terapia,  farmacologica e non: questi spesso non riesce a stabilire una valida alleanza terapeutica col suo medico, per difficoltà di interazione sociale oppure ad esempio per mancanza di fiducia (il delirio di persecuzione può essere una possibile causa).
Questo scenario potrà cambiare in futuro grazie ai marker biologici di malattia, gli endofenotipi: migliorando la conoscenza su di essi, approfondendo i loro legami con i fattori di rischio, sviluppando strumenti efficaci per la loro misurazione, si potrà giungere ad individuare un soggetto predisposto quando ancora  si trova in stadio pre-morboso. Agire in questa fase aumenta le opzioni terapeutiche, aprendo importanti aree d’intervento per la psicoterapia. In particolare sembrano promettenti l'approccio cognitivo-comportamentale e la terapia FACT: Family-Aided Assertive Community Treatment, un approccio integrato multidisciplinare, di cui la Terapia Familiare, basandosi sull'evidenza della sua efficacia nella schizofrenia e nel primo episodio della psicosi, è l'elemento principale (Mc Farlane, 2015). L'intervento precoce può migliorare l’aderenza alle cure, soprattutto perché si opera nei confronti di un soggetto ancora perfettamente sano ed abile, o il cui disagio è comunque ancora sfumato. Tutto ciò a sua volta può ridurre l’insorgenza dei casi di psicosi franca, o in ogni caso può migliorarne in modo sensibile il decorso a lungo termine, riducendo la sofferenza e consentendo una maggiore abilità sociale.
In base ai risultati della nostra indagine, la working memory, ed in particolare la sua componente visuo-spaziale, rafforza il suo possibile ruolo come endofenotipo di riferimento nella ricerca dei segnali precoci delle manifestazioni psicotiche. Sulla base di ciò si può arrivare  a prospettare in futuro uno screening per i disturbi dello spettro psicotico.
Si tratta di un obiettivo certamente non facile, ed attorno al quale si inseriscono innegabili considerazioni di natura etica, come quasi sempre, ed inevitabilmente, in psichiatria avviene. Al di là delle varie problematiche, raggiungere un obiettivo del genere potrebbe addirittura cambiare la storia della schizofrenia, trasformandola dalla malattia cronica ed invalidante che ancora è oggi ad una condizione gestibile e curabile.





Stefano Naim
Dott. in Medicina e Chirurgia
Collaboratore Blog del Benessere Psicologico