"LOVE ADDICTION": QUANDO L'AMORE DIVENTA UNA DROGA





"Odio e amo. Per quale motivo io lo faccia forse ti chiederai.
Non lo so ma sento che accade e me ne tormento".
Catullo, Carme 85

"Così non riesco a vivere né con te né senza di te"
Ovidio, Amores (III, 11b, 7)


L'amore, nelle declinazioni di sofferenza e tormento, caratterizza sia i versi di Catullo che quelli di Ovidio. Nel primo caso quanto scritto sembra ricordare il più comune "male d'amore", dovuto a lontananza o indisponibilità della persona desiderata, incomprensioni, delusioni. Stati transitori che caratterizzano il sentimento più cantato dai poeti e dagli artisti di ogni genere. In Ovidio, invece,  ci sembra di intravedere la sofferenza di una relazione già consumata e vissuta, qualcosa di assimilabile a un rapporto di coppia che crea malessere e non felicità e al quale, non si riesce comunque a fare a meno. E' l'esatta differenza che intercorre tra il soffrire per amore e una vera e propria "intossicazione d'amore". In psicologia si parla infatti di "Love addiction" o dipendenza affettiva. Attualmente i manuali psichiatrici non contemplano criteri diagnostici per definire questi stati emotivi, ma diversi sono gli autori che hanno trattato l'argomento. Secondo Giddens (1992) le principali caratteristiche della love addiction sono:

- "EBBREZZA" : sensazione di euforia e sollievo provata in relazione alle risposte affettive e alla presenza fisica del partner

- "DOSE" : Ovvero il bisogno di "dosi crescenti". Solo la presenza materiale del partner, infatti, interrompe lo stato di prostrazione vissuto. L'aspetto disfunzionale è caratterizzato dall'impossibilità di "interiorizzare" la presenza della persona amata (Lerner, 1996), ciò provoca una continua richiesta di rassicurazioni con la conseguente, quasi totale, dissipazione dell' autonomia all'interno del rapporto.

- PERDITA DELL'IO : La costante paura di "perdere l'amore" facilita una considerevole riduzione del senso critico in riferimento alla propria situazione e a quella del partner. A tutto ciò, possono alternarsi momenti di lucidità, accompagnati da forti sentimenti di vergogna, che portano ad una momentanea separazione, spesso di brevissima durata. Rimorsi, sensi di colpa e paura dell'abbandono, caratterizzano le continue ricadute. La dipendenza diviene così un meccanismo di fuga nei confronti del riconoscimento di una mancanza di autonomia. Caratteristiche molto simili alle dipendenze da sostanze. Il partner diviene infatti allo stesso tempo carnefice e salvatore; veleno e antidoto, innescando un circolo vizioso, caratterizzato da bassa autostima e scarso senso di autoefficacia.

Altri aspetti caratterizzanti possono essere rintracciati nella costante e irrealistica speranza di far cambiare la persona desiderata e nella perdita della "dimensione di gratuità". La relazione affettiva tende a perdere il carattere incondizionato. L'amore diviene una richiesta disperata e continua. Il piacere di donare, lascia il posto alla sola dimensione del "dare per ricevere", declinata in un'accezione esclusivamente quantitativa e materiale (presenza fisica del partner) e percepita nell'ottica del "mai abbastanza". "Ho bisogno che tu abbia bisogno di me".

L'elemento che più avvicina la love addiction alle altre dipendenze è la perdita di controllo. Il legame stesso diventa dipendenza. Senza non si vive. L'oggetto stesso diventa motivo fondamentale, obiettivo primario, significato di vita. Al pari di ciò che avviene con l'abuso di sostanze psicotrope, si verificano sintomi di dipendenza fisica e psicologica, con i relativi fenomeni di tolleranza, astinenza e craving (Costantini, 2008)
Secondo Pulvirenti (Il Cervello Dipendente, 2007) la dipendenza è prima di tutto "immobilità". La ricerca di una "stampella" alla nostra autonomia, si esaurisce in un movimento vano che provoca una sorta di pietrificazione e ingabbiamento. Il percorso è sempre lo stesso, nello slancio verso l'indipendenza si cerca a tutti i costi di evitare il dolore del distacco, per poi ritrovarsi in una situazione di assoluta dipendenza che produce un nuovo sentimento di angoscia.


L'ATTACCAMENTO

Comprendere cosa ci sia alla base di simili condotte comportamentali e relazionali non è sicuramente un compito facile. La Teoria dell'attaccamento ci fornisce un buon punto di partenza e un'ottima cornice entro la quale cercare di fornire spiegazioni valide a queste dinamiche affettive.
Bowlby (1969) definisce l'attaccamento come la "propensione innata a cercare la vicinanza protettiva di un membro della propria specie quando si è vulnerabili ai pericoli ambientali per fatica, dolore, impotenza o malattia. Le modalità con le quali si forma l'attaccamento, perdurano nel tempo e si strutturano nei primi mesi di vita attorno a una figura di riferimento, spesso la madre che nella maggior parte dei casi è la prima ad occuparsi del bambino, ma, come sottolinea lo stesso Bowlby, nulla vieta a un padre o a un altro soggetto accudente, di diventare la figura di riferimento (caregiver), nel caso in cui sia il primo ad occuparsi delle cure del bambino. Con la crescita l'attaccamento si estende dal caregiver di riferimento ad altre figure, interne o esterne alla famiglia. Per Bowlby le relazioni primarie di attaccamento rivestono un'importanza fondamentale nella costituzione dei cosiddetti Modelli Operativi Interni (MOI) costituiti dai modelli di sé, della figura di accudimento e della relazione: modelli operativi di sé-con-l'altro (Liotti, 2001). Essi rappresentano l'idea e il concetto che il bambino ha del sentirsi accettabili o inaccettabili agli occhi delle figure di attaccamento. Sulla base di questi modelli, il soggetto applicherà le sue previsioni sull'accessibilità e la responsività delle figure accudenti. In quest'ottica la Figura di Attaccamento rappresenta la cosiddetta "base sicura" dalla quale il bambino si muove per esplorare il mondo e intessere relazioni. Il concetto di base sicura lo si deve a Mary Ainsworth, allieva di John Bowlby ed esperta di psicologia dello sviluppo, che nel 1969 teorizzò il paradigma di ricerca della Strange Situation, tramite cui vengono definiti i diversi stili di attaccamento del bambino. Per quanto la teoria nasca con l'esplicito riferimento ai primi anni di vita dell'essere umano, Bowlby (1979) sosteneva che l'attaccamento è parte integrante del comportamento umano "dalla culla alla tomba". Sulla base di queste considerazioni la psicologa statunitense Mary Main, mise a punto nel 1985 l'Adult Attachment Interview, uno strumento psicodiagnostico sotto forma di intervista semi-strutturata che valuta gli stili di attaccamento in età adulta.

LA FERITA

L'ipotesi che prevede un ruolo fondamentale dei modelli relazionali disfunzionali e cronicizzati, sulle dinamiche di dipendenza affettiva, sembra essere in accordo con quanto sostenuto da Peter Schellenbaum nel suo "La ferita dei non amati" (1988). Secondo lo psicanalista elvetico un'esperienza affettiva dolorosa vissuta durante l'infanzia, può influenzare in parte le successive relazioni, provocando sentimenti di abbandono o il sentirsi incompresi, per nulla amati o amati troppo poco.



LA STORIA RELAZIONALE


D'altro canto assegnare un importante ruolo alle ferite vissute durante l'infanzia o ai modelli affettivi sviluppati e appresi, non significa necessariamente considerare queste variabili come causa preminente di vissuti relazionali problematici. La mente umana, come del resto il nostro "agire relazionale" non possono essere visti come qualcosa di immodificabile. Sia perché le esperienze affettive in età adulta tendono a modificare i nostri comportamenti, sia perché le nostre reazioni, il nostro modo di comunicare e provare sentimenti prende corpo nella relazione stessa. Le relazioni di coppia non sono infatti un semplice incontro di individualità, personalità o stili comportamentali. Ogni rapporto tende a creare un campo assestante, in cui gli individui, oltre a portare con se il proprio bagaglio affettivo, tendono a influenzarsi reciprocamente e a modificare il sistema.


AMARE TROPPO

 La psicoterapeuta americana Robin Norwood, specializzata in Terapia della Famiglia, sintetizza così i vissuti di dipendenza amorosa descritti nel suo libro "Donne che amano troppo" (1989)
"Quando nella maggior parte delle nostre conversazioni con le amiche intime parliamo di lui, dei suoi problemi, di quello che pensa, dei suoi sentimenti, stiamo amando troppo. Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza o li consideriamo conseguenze di un'infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando troppo. Quando leggiamo un saggio divulgativo di psicoanalisi e sottolineiamo tutti i passaggi che potrebbero aiutare lui, stiamo amando troppo. Quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare, il suo comportamento, ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuose lui vorrà cambiare per amor nostro, stiamo amando troppo. Quando la relazione con lui, mette a repentaglio il nostro benessere emotivo e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo. A dispetto di tutta la sofferenza e l'insoddisfazione che comporta, amare troppo è un'esperienza tanto comune per molte donne, che quasi siamo convinte che una relazione intima debba essere fatta così".  Le considerazioni della Norwood, prendono particolarmente in esame la condizione di donne, mogli e madri intrappolate in rapporti disfunzionali, spesso con partner manipolatori o violenti, dalle quali non riescono a svincolarsi. I dati scientifici, in continua evoluzione, mettono in evidenza che il 99% dei soggetti con dipendenza affettiva appartiene al sesso femminile (Miller, 1994), tutto ciò però non basta a restringere il panorama delle love addiction che sembra essere molto più complesso e variegato.


LA CO-DIPENDENZA

Al fine di inquadrare nel miglior modo questi aspetti complessi, è il caso di approfondire il concetto di co-dipendenza, preliminare a quello di dipendenza affettiva e che prende corpo nell'ambito degli studi sulle dipendenze da sostanze (Johnson, 1973). La co-dipendenza viene definita come una condizione multidimensionale manifestata da ogni disfunzione o sofferenza associata con (o dovuta a) una focalizzazione su bisogni o comportamenti altrui. L'interesse verso questo tipo di condotta deriva dall'osservazione di coppie formate da un alcolista e dal suo partner, in cui quest'ultimo presenta inconsciamente aspetti di morboso accentramento intorno alle problematiche dell'altro (Vaillant, 1977). I co-dipendenti tendono a trascurare i propri bisogni e desideri e, nella negazione di essi, a mettere da parte, più in generale, se stessi; situazione che è stata anche denominata "malattia del Sé perduto" (Whitfiled, 1997). Questa quasi totale perdita dello spazio individuale che si accompagna ad un annichilimento dei propri bisogni e delle proprie esigenze, viene spiegato così in chiave psicodinamica: "Dal punto di vista dei rapporti interpersonali significativi, viene sottolineata in questi soggetti la necessità di esercitare un controllo sul partner problematico e l'assunzione su di sé, graduale ma inesorabile, delle funzioni dell'Io dell'altro" (Wright e Wright, 1990). Pur non esistendo una catalogazione delle condotte co-dipendenti all'interno dei manuali clinici, alcuni autori tra cui Cermak (1986) hanno provato a stilare una lista di criteri diagnostici applicabili:

- Continuo investimento dell'autostima nella capacità di controllare sé e gli altri nonostante le evenienze di serie conseguenze negative
- Assunzione di responsabilità per venire incontro ai bisogni degli altri fino ad escludere il riconoscimento dei propri
- Ansia e distorsione del confine di sé in situazioni di intimità e di separazione
- Coinvolgimento in relazioni con soggetti affetti da disturbi di personalità, dipendenza da sostanze, altra co-dipendenza o disturbi del controllo degli impulsi


RELAZIONI DIPENDENTI

La potenziale sovrapponibilità tra i criteri appena esposti e le caratteristiche di "ebbrezza"; "dose" e "perdita dell'Io" teorizzate da Giddens, sembrano dissolvere il confine tra dipendenza affettiva e co-dipendenza in un più appropriato panorama relazionale nel quale si muovono le love addiction. Qualcosa di più simile a quelle che Black (1990) definisce "relationship addiction".
Secondo Ruggiero e Iacone (2013) la co-dipendenza è una buona fetta delle dipendenze affettive. Cercare di inquadrare i comportamenti messi in atto nelle love addiction significa innanzitutto indagare un legame. La coppia tende a  muoversi in quello spazio condiviso che le neuroscienze chiamano "mente relazionale" (Siegel, 1999; Gallese, 2003). E' in questo spazio che si trova la ragion d'essere delle follie d'amore. Solo comprendendo la forza di una fantasia salvifica condivisa, è possibile dare un senso a certe scelte folli e distruttive, solo afferrando la "bolla" relazionale è realizzabile l'accanimento e le infinite resistenze al cambiamento di queste coppie. Approfondire quindi le dipendenze affettive ha il significato di scandagliare la psicopatologia del legame. (Iacone e Ruggiero, 2013). Parlare di "dipendenza d'amore" significa molto spesso trovarsi di fronte a una relazione co-dipendente, in cui lo scambio reciproco di affetto viene sostituito da un'altalena fatta di momenti di lacerante allontanamento e episodi di vicinanza simbiotica; lo spazio individuale dei due partner, condizione imprescindibile per la creazione del legame, non si limita alla condivisione, sfocia piuttosto in un controllo reciproco; l'amore stesso diventa un impegno da assolvere, un compito da portare a termine; amarsi, non ha più il significato di arricchirsi reciprocamente, la funzione principale dell'amore diviene quella di colmare un vuoto affettivo o curare le proprie ferite.


INNESCARE IL CAMBIAMENTO

Riconoscere di essere parte di una relazione dipendente è sicuramente il primo passo per riscoprire la propria dimensione individuale. La confusione tra dipendenza e amore è infatti uno dei primi ostacoli da superare per rintracciare una via d'uscita. La rivalutazione di sé, passa per la ristrutturazione di inferenze e comportamenti cronicizzati. Evitando di essere troppo severi con se stessi, si possono ristabilire i confini tra protezione e controllo; richieste d'affetto e ricatti affettivi; condivisione e co-dipendenza 


Dott. Santo Cambareri - Psicologo Specializzando in Psicoterapia Sistemico-Relazionale



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Terapia Multisistemica in Acqua - Prende il via anche a Reggio Calabria il metodo Caputo Ippolito

www.terapiamultisistemica.it

 Si chiama TMA (Terapia Multisistemica in Acqua) ed è il metodo ideato in Italia da Giovanni Caputo, psicoterapeuta di approccio Cognitivo-Comportamentale e curatore della rubrica "Infanzia e adolescenza" della rivista AP Magazine; Paolo Maietta, psicologo, specializzando in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, anch'egli collaboratore della rivista AP Magazine come responsabile della sezione "Autismo" e Giovanni Ippolito, psicologo, psiconcologo, specializzando in Psicoterapia Sistemico-Relazionale. Ippolito è uno degli autori della favola didattica "Calimero l'amico speciale" per l'integrazione dei bambini autistici nel contesto scolastico.
La terapia viene svolta all'interno delle piscine pubbliche ed è applicata con successo in quasi tutte le regioni d'Italia, grazie anche alla collaborazione con diverse associazioni di genitori di soggetti autistici.

Il metodo TMA si rivolge ai soggetti affetti da: disturbi dello spettro autistico, disturbi pervasivi dello sviluppo e disturbi della comunicazione.
La funzione ludica e ricreativa del nuoto è utilizzata come elemento facilitante le relazioni e la gestione delle emozioni, al fine di  raggiungere obiettivi terapeutici e attuare il processo di socializzazione e integrazione col gruppo dei pari.
Sabato 1 Febbraio 2014 è in programma la prima prova gratuita in acqua a cura della terapista T.M.A. Dott.ssa Anna Arena presso la piscina A.S.D. Andrea Maria in via Nazionale Pentimele a Reggio Calabria